«Quando ero piccola il panorama d’Istanbul arrivava solo fino a metà
dell’orizzonte. Adesso occupa tutto. Non si fermano più». A parlare è
una residente dell’isola di Heybeliada, nel Mar di Marmara, lo specchio
tra il Bosforo e i Dardanelli. Non ci sarebbe niente di preoccupante
nelle parole della donna: quello del “qui una volta era tutta campagna” è
un degno luogo comune dalla diffusione globale.
Il problema è che la donna non è un’anziana alla fermata di un tram, ma una giovane signora
– e il periodo idilliaco cui si riferisce è datato appena dieci anni
prima. L’impressione che qualcosa di strano stia succedendo in Turchia
si ha anche a Istanbul. Per la metropolitana e sui palazzi ci sono
decine di enormi pubblicità con visi sorridenti di famigliole turche,
con sfondo di complessi immobiliari in costruzione dal sapore di emirato
petrolifero. A Taksim ce n’è uno che ricorda la Marina di Dubai. Si
celebra così l’esplosione immobiliare – ma è anche qui che nascono i
sospetti.
Gli episodi di forte crescita del real-estate spesso evidenziano due questioni economiche controverse.
La prima è la “speculazione”: l’immobiliare è un settore ad altissimo
valore aggiunto, ma che rimane in piedi finché c’è domanda. È
un’industria ad forte consumo di risorse territoriali, e necessita di
una scorta continua di persone pronte a popolare palazzi e
appartamentini. Se la Turchia è un paese in industrializzazione, il
fenomeno d’Istanbul denuncia come le persone si stiano spostando dalla
campagna alla città, come cinesi mediorientali. L’altro aspetto è quello
della polarizzazione dei redditi. L’immobiliare non crea industria che
possa integrarsi sui mercati internazionali – a meno di istituire realtà
aziendali in grado di competere per commesse all’estero.
L’immobiliare, cioè, non è un male – ci mancherebbe – ma se rappresenta una
componente eccessiva del sistema economico, così come sta succedendo in
Turchia, i problemi potrebbero arrivare presto. Prima di tutto, si
potrebbe creare una bolla immobiliare. A seguire, la bolla immobiliare
potrebbe scoppiare a seguito dell’esaurimento della scorta di turchi che
accorrono a Istanbul. Non è un caso se la domanda di abitazioni si è
stabilizzata, ma i prezzi immobiliari continuino a salire.
È quello che sta succedendo in Turchia? Sembra che il premier Recep Tayyip Erdogan
avrà presto a che fare con problemi economici anch’essi di tipo cinese.
Il paese offre manodopera a basso prezzo per produzioni estere, e sta
cercando contatti con l’Europa per poter espandere la propria rete
commerciale. Così, è incontestabile che l’economia turca sia cresciuta a
passi rapidissimi negli ultimi anni (quasi al 10% nel dopo-crisi), ma
dalla crisi stessa l’approccio adottato per la crescita è cambiato di
molto. Tra il 2008 e il 2012, il Pil turco è passato da 742 a 786
miliardi di dollari, crescendo quindi di 44 miliardi; ma lo stock di
debito verso l’estero è cresciuto di 56 miliardi, cioè più del Pil. Di
questi 56 miliardi di aumento, ben 48 sono debiti a breve, a forte
sensibilità speculativa.
Se ciò non bastasse, si può anche citare quanto sta succedendo nel settore bancario.
La crescita ha una dipendenza molto evidente dall’espansione del
credito – non ultimo perché esiste un sistema di banche “sharia
compliant” che hanno interesse a seguire le politiche dell’AKP, il
partito islamico-riformista di Erdogan. Il credito privato è cresciuto
molto. La banca centrale ha dichiarato dalla fine del 2011 di voler
stabilizzare la crescita del credito, ma ha agito poi in maniera
equivoca: alla luce di un’espansione economica deludente nel 2012
(appena il 2,2%), il tasso d’interesse principale della banca centrale
turca è stato ridotto dal 5,7% al 4,5 per cento. Nonostante questo,
l’inflazione è rimasta bassa, scendendo addirittura al 6,13% in aprile –
rispetto ad attese del 6,5%. I libri di economia vorrebbero che se si
abbassa il tasso, l’inflazione rimanga almeno stabile, e l’economia
cresca, ma il +1,6% registrato nel primo trimestre del 2013 non sembra
promettere bene, soprattutto dopo due trimestri al +0,1 per cento.
La debolezza turca risiede nei fondamentali: dipende troppo dall’offerta di manodopera a basso prezzo
e dai mercati esportativi. Un sussulto internazionale potrebbe portare
al tracollo economico, e soprattutto sociale. Il paese è privo della
rete di assistenza presente in Europa, e licenziamenti di massa non
potrebbero essere assorbiti politicamente. Non si dimentichi che dalla
crisi il tasso di povertà ha smesso di scendere – segno, in presenza di
crescita, di polarizzazione economica. Più precisamente, con l’AKP in
Turchia i più ricchi hanno ceduto quote di ricchezza alla classe media,
ma gli altri sono rimasti indietro.
La Turchia potrebbe poi essere vittima del suo stesso successo: le
esportazioni potrebbero far aumentare la lira turca, riducendo le
esportazioni stesse. Se la banca centrale reagisce abbassando il tasso
di cambio (che dovrebbe anche svalutare la lira turca sui mercati), è
anche in reazione a questo fenomeno.
C’è quindi molta Turchia da scoprire oltre Istanbul. Non bisogna credere
alla Taksim lucida dello shopping-mile e degli alberghi di lusso, ma a
quella delle proteste. La reazione violenta di Erdogan è dovuta a
questo: la consapevolezza che il suo partito fortemente ideologico può
rimanere al potere solo con la crescita economica. Se il modello
zoppica, il suo potere annaspa. C’è da sperare che la Turchia riesca a
proseguire nel suo cammino di stabilità, ma per ora non c’è da fidarsi
della Turchia.
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