Il mito dell’investimento sicuro è crollato i fondi immobiliari hanno perso il 75%
A TANTO PUÒ ARRIVARE LO “SCONTO” A CUI DEVE RINUNCIARE CHI VOLESSE USCIRE IN ANTICIPO DA UN SUO INVESTIMENTO. ERRORI DI GESTIONE E ALTI COSTI DI COMMISSIONE SI AGGIUNGONO ALLA CRISI DEL SETTORE. IL RISCHIO CHE LE VALUTAZIONI VADANO ANCORA PIÙ GIÙ. UN MERCATO ORMAI ILLIQUIDO
Adriano Bonafede
Roma “S cusi, avrei bisogno di contanti. Si potrebbe
liquidare la mia posizione nel vostro fondo immobiliare? Quanto ho
guadagnato finora?”. Il funzionario della banca non sa proprio da dove
cominciare. Dirà per prima cosa al suo cliente che è meglio aspettare
a vendere, che la funzione dei “fondi del mattone” è quella di un
investimento a lungo termine. Non sappiamo come finirà questa
conversazione immaginaria ma se il cliente insistesse ad avere i soldi
indietro, si potrebbe rendere conto non soltanto di non aver guadagnato
nulla in tutti questi anni ma di aver perso fino al 75 per cento del suo
capitale! Il mito del mattone, fino a ieri sempre vivo negli italiani,
ha portato una serie di banche e di loro controllate società di
gestione del risparmio a creare nel corso degli anni 2000 questi
strumenti destinati a investire in centri commerciali, uffici, negozi e
residenziale. Lo spezzettamento degli investimenti avrebbe garantito
una migliore allocazione del risparmio rispetto all’acquisto di un
singolo immobile e, grazie alle piccole quote, l’abbassamento della
soglia di partecipazione, possibile anche con poche migliaia di euro.
Oggi ci sono ben 22 fondi destinati alle famiglie, per un controvalore
di circa 2 miliardi di euro, e 23 di esclusivo appannaggio degli
investitori istituzionali, ma questi ultimi sono enormemente superiori
per volume e valore (circa l’80 per cento del totale). Ma se è assodato
che gli investitori istituzionali sappiano bene quel che fanno e
dunque
non abbiano bisogno di particolari protezioni, per i
semplici risparmiatori la nascita dei fondi immobiliari è avvenuta dopo
un lungo iter che ha messo in piedi un complesso apparato di garanzie.
La stretta regolamentazione della Banca d’Italia ha permesso di non
ripetere le dolorose esperienze dei finanzieri d’assalto degli anni 80,
Orazio Bagnasco, Luciano Sgarlata e i fratelli Canavesio. Quei i signori
dei titoli «atipici», all’epoca strumenti finanziari nuovi, non
regolamentati, che negli anni 80 travolsero decine di migliaia di
risparmiatori che avevano creduto nel mattone “a pezzetti”. Però è pur
vero che anche l’attuale normativa non ha resistito al vento contrario
della recessione, che ha fatto crollare i prezzi, ai suoi difetti
intrinseci e alla non sempre brillante gestione. E dire che le garanzie
per i risparmiatori erano sembrate di ferro, soprattutto l’obbligo di
quotare i fondi in Borsa dopo il primo anno e la certificazione
semestrale dei prezzi da parte di certificatori indipendenti. Ma oggi
chi volesse vendere le sue quote prima della scadenza avrebbe uno
“sconto” sul Nav (net asset value, il valore “certificato” dagli
esperti) che va da un minimo del 10 a un massimo del 75 per cento. «Le
cause dello sconto sono molteplici – dice Giacomo Morri, senior
professor alla Sda Bocconi School of Management - la scarsa liquidità
del mercato secondario, le elevate commissioni di alcuni fondi (in
particolare i più vecchi), la scarsa fiducia nelle valutazioni e in
alcuni casi la scarsa capacità di alcuni gestori». L’irrilevante
liquidità del mercato secondario è stata di certo uno degli elementi
più importanti nel fallimento di questi strumenti. «Persino parlare di
mercato è sbagliato – dice Stefano Cervone, direttore generale di
Sorgente, uno degli operatori più attivi nel settore con fondi
esclusivamente destinati agli investitori istituzionali – qui il
mercato non esiste: in un anno il valore degli scambi è pari al 7-8 per
cento del totale, mentre per le azioni è pari a 3-4 volte il totale».
La cosa strana è che lo sconto, approssimandosi la scadenza, dovrebbe
teoricamente tendere a zero. Se lo sconto sul Nav è pari a 40, basterà
aspettare quegli anni che ci separano alla scadenza per avere il
controvalore di 100. Ma così non sta accadendo. La maggior parte dei
fondi nati nei primi anni 2000 stanno arrivando alla scadenza
quindicennale. Il che significa che il mercato non è convinto che
quando si venderà si riuscirà a prendere il 100 per cento del valore
indicato. Ciò porta, di fatto, a ritenere che le valutazioni non siano
considerate realistiche e che, soprattutto, non tengano conto
dell’attuale situazione del mercato. La preoccupazione dei gestori è
grande: vendere in un periodo di crollo del mercato non sembra un buon
viatico al rendimento. «Si spiega così la proposta di Assogestioni –
dice Simone Roberti, responsabile dell’ufficio studi italiano di Bnp
Paribas Real Estate – di allungare le scadenze ex lege di 2 o 3 anni
». L’esistenza di uno sconto sul Nav così rilevante e l’inizio della
crisi hanno di fatto bloccato il mercato: è dal 2007 che non nascono
nuovi fondi retail, e qualcuno pensa che questa esperienza andrà a
morire. «Forse – dice Cervone - bisognerebbe semplicemente abolire la
scadenza, che condiziona e obbliga il gestore a fare gli investimenti
di un certo tipo e a non sfruttare pienamente le opportunità che si
presentano ». Al di là dei difetti regolamentari e delle auspicate
modifiche, rimangono anche gli errori commessi dai gestori. Il primo e
più sostanziale è quello di non aver previsto in alcun modo l’andamento
di questo ciclo. «In teoria – dice un addetto ai lavori – è possibile
chiudere il fondo anche prima della scadenza. Se qualcuno avesse venduto
tutto nel 2006 e 2007 avrebbe fatto concludere ai sottoscrittori buoni
affari, Ma nessuno ha avuto il coraggio di perdere le laute commissioni
di gestione». Ci sono 22 fondi immobiliari destinati alle famiglie e 23
di esclusivo appannaggio degli investitori istituzionali, ma questi
ultimi rappresentano l’80% del valore totale A sinistra, Aldo Mazzocco,
amministratore delegato di Beni Stabili, che ha tre fondi quotati
destinati al retail: Securfondo, Immobilium 2001 e Invest Real Security
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